Il maschio standard
Pubblichiamo una interessante lettera di Alessio, ragazzo di 12 anni, alla rivista “Rocca“, pubblicata nel n. 12 del 15/06/2013
Uomini che camminano, bello. Dà speranza. Ma io sono un bambino, anzi, un ragazzino. Non un uomo. Vado a scuola, faccio sport (più per questioni di salute che per passione e competizione), sto con gli amici, gioco e navigo al computer. Le solite cose. Sono cresciuto, anzi, sto crescendo in una famiglia dove non sono mai stato sfiorato da discorsi del tipo: un maschio non piange, non si lamenta, non è mai stanco, non lava i piatti, non fa le pulizie… Ho dovuto imparare ad allacciarmi le scarpe, a sbucciarmi la frutta, a farmi il letto, a piegarmi i vestiti (o, in alternativa, a indossarli stropicciati), ad apparecchiare. Tale e quale a mia sorella, solo un paio d’anni prima di lei per pure questioni anagrafiche. Un tempo le maestre e, oggi, professori e professoresse, quando per qualche motivo mi arrabbio o sono in crisi, mi guardano strano se piango. Perché piango. Anche se man mano sto sforzandomi di trattenermi perché… beh, perché in effetti un po’«esagero» (lo ammetto: già che mi sfogo lo faccio per bene), ma soprattutto perché i grandi e i compagni mi fissano e mi dicono che non si piange. Sono grande, ormai, per prendermela così tanto per le cose, affermano. Ma la traduzione è che sono un maschio. Punto. Con le femmine fanno meno questioni. La volta che mi sono azzuffato col compagno con cui litigavo si è risolto tutto in breve tempo. Una sgridata, una telefonata a casa (eravamo in gita) e fine. Sono ragazzi, succede. Ma perché sulla questione-lacrime si torna sempre, durante i colloqui coi genitori, mentre sulla faccenda-botte si è tutto chiuso con un sorriso comprensivo? È meglio fare a pugni che piangere? A casa, se piango, c’è chi mi consola. Sempre. A meno che sia io a respingere le coccole. Se mia sorella e io ci azzuffiamo, invece, quando esageriamo c’è la punizione. Io sono cresciuto così. Adesso, a 12 anni, non ho sempre mamma o papà appresso (e chi li vuole!) però di adulti ne incontro tanti. A scuola, nell’attività sportiva, per strada… Mamma dice che ognuno è fatto un po’ a modo suo e che incontrerò persone che riescono a capirmi e altre che pretenderanno da me prestazioni da «maschio-standard», sia a scuola che in altri ambiti. Per qualcuno sarò semplicemente Alessio, per altri sarò il maschio Alessio. Con alcuni potrò parlare, con altri no. Alcuni mi tratteranno molto bene, ad altri sarò indifferente, altri ancora mi prenderanno di punta e con loro sarà dura. È la realtà, è la vita, dice lei. Ok. Non sarò simpatico a tutti, come invece accade in famiglia, dove mi vogliono bene anche quando faccio il cattivo ragazzo apposta. Ma questa faccenda del maschio è una fregatura. Nel senso che se hai respirato aria di spontaneità per tutta la vita e a 12 anni ti devi confrontare con adulti che vogliono che tu sia un «maschio-standard», è un gran casino. Coi compagni è diverso, posso scegliere e se qualcuno rompe troppo o sfotte alla grande, evito la sua compagnia. Ma i prof? E l’allenatore (non quello simpatico, l’altro, o gli altri)? Non sono mica tutti uomini (o donne) in cammino… A casa, quando sono in crisi, mi ascoltano, mi consolano, mi aiutano a cercare motivazioni positive. Ma poi fuori ci sono io. Mamma non deve intervenire più di tanto, io sono grande. E poi sarebbe ancora peggio se venisse fuori che «mammina» si è messa in mezzo… A volte invidio i miei amici cresciuti «maschi-standard». I grandi approvano le loro reazioni, nulla li scalfisce, hanno sempre la risposta pronta, non si lamentano mai. Cercano sempre di dare il meglio nello sport senza farsi vincere dalla stanchezza o dai crampi. Sono dei duri, anche quelli più calmi. Non piangono di sicuro, loro. E sono apprezzati per questo. Dunque… voi camminate pure, ma fate in fretta a diffondere una nuova cultura, per favore, perché io mi sento un po’ solo e sto cominciando a imitare i «maschi- standard», per come riesco, in modo da sentirmi accettato. È un vestito stretto, non mi piace e fa male. Ma non devo lamentarmi, no?
Ciao da Alessio